Questo capitolo è interamente dedicato a un ricordo di Piton, quello del giorno in cui si svelò a Lily e Petunia e di cosa accadde nelle ore successive.
Spero vi piaccia
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Capitolo IX***
“Che cosa volevi dire ieri?”
I due bambini rimasero a guardarsi, esaminandosi con attenzione.
Quella mattina Severus era tornato al parco con l’angoscia che gli premeva il petto.
Il giorno prima era rimasto immobile a guardare Lily e sua sorella voltargli le spalle e andarsene con decisione, dopo che lui era stato tanto incauto da mostrarsi, da parlare loro, da svelare alla bambina più piccola un segreto che lei ancora non conosceva.
Perché era stato così sciocco?
Davvero aveva creduto che sarebbero diventati amici, che lei sarebbe stata contenta di sapere di essere una strega?
Beh… sì.
L’aveva creduto, perché l’aveva immaginato tante e tante volte, ci aveva fantasticato talmente su che era come vedere un film, con scene sempre uguali a se stesse.
Ma quando la realtà aveva preso il posto delle fantasie, quando le cose avevano preso fin da subito una piega diversa, non era stato in grado di gestire gli eventi: aveva dovuto improvvisare, per di più davanti a quella babbana che l’aveva fatto sentire a disagio, diverso, fuori posto, contagiando con il suo atteggiamento anche Lily, che vide allontanarsi con il disprezzo negli occhi.
Non gli aveva creduto, anzi si era offesa.
E lui era rimasto lì a vivere un film diverso da quello dei suoi sogni, solo sotto il sole, sudato, avvilito e tremante per la tensione, anche quando le bambine erano già scomparse alla sua vista.
Poi all’improvviso si era messo a correre, più veloce che poteva, sollevando nuvolette di polvere quando le sue scarpe toccavano la terra riarsa.
“Stupido, STUPIDO!!” si ripeteva, mentre calpestava con forza il suolo, le gambe magre che spuntavano dai jeans laceri, il cappotto che gli svolazzava scomposto intorno.
Correva e sentiva l’aria fendergli il viso, un’aria calda che non gli recava alcun sollievo. Si morse il labbro fino a sentir talmente male da non curarsene più. Correva con i pugni stretti e gli occhi chiusi per impedirsi di piangere, perché se era facile non piangere più per suo padre, questa volta si trattava di lui e dei suoi sogni che si spezzavano, sogni che fino a qualche anno prima non esistevano, ma che da tempo avevano prepotentemente invaso la sua mente, regalandogli il dolce conforto di immaginarsi non più solo.
Ma non pianse.
Giunto lungo il grigio fiumiciattolo che passava accanto a Spinner’s End si fermò ansando, per farsi male, per godersi la gioia perversa di un panorama tanto differente da quello del parco, un panorama brutto, schifoso, squallido… la location ideale per il suo desiderio frantumato come un inutile coccio.
Assaporò la crudeltà con cui si infliggeva la vista della ciminiera che sputava grigio, dell’erba malata e secca, dello scorrere denso dell’acqua putrida e semistagnate, delle case misere e sporche che si ergevano poco più in là come le mura di una prigione dell’anima.
Si sedette sull’argine e tenendosi le ginocchia aspettò che il respiro gli tornasse regolare, le palpebre chiuse contro il sole che gli faceva vedere macchie rosse.
Annusò con un sottile, perfido piacere il cattivo odore che pareva venir fuori dal terreno stesso, come per convincersi che quel luogo era il suo elemento, quello il posto che meritava, quella l’unica compagnia che gli spettava. Una solitudine desolata.
Davvero aveva creduto che quella bambina… Lily… (l’angolo della bocca gli tremò per un istante) si sarebbe messa a saltellargli intorno eccitata, come faceva sempre quando era felice? Davvero aveva pensato che lo avrebbe preso per mano e che avrebbero giocato assieme?
“Stupido” ripeté una voce nella sua testa.
Reclinò la testa all’indietro e sollevò i piedi, rimanendo per un po’ a bilanciarsi con impercettibili movimenti avanti e indietro.
Quando il suo respiro si calmò, allungò le gambe e poi si distese completamente; aprì gli occhi e nel suo piccolo viso pallido incorniciato dai capelli appiccicati alla pelle si schiusero due dense gocce nere senza espressione, senza volontà, che presero ad osservare il nulla sopra di sé, immobili.
Dopo molto tempo si era alzato di scatto e per qualche istante aveva barcollato per una vertigine dovuta al movimento brusco e all’essere rimasto sotto il sole cocente. Ruotò il braccio per meglio sistemarsi addosso il cappotto e senza pensare a niente si diresse verso la sua casa. Camminava senza vedere le stradine strette, con le mani affondate nelle tasche e il capo chino, il volto completamente nascosto da due cortine di capelli impolverati, svoltando a destra e a sinistra come un automa.
Nessuno gli aveva chiesto nulla quando era rientrato. Sua madre stava preparando una misera cena e suo padre gli si parò davanti a quanto pareva solo per costringerlo a fermarsi e a girargli intorno. Severus strinse forte i pugni in tasca e senza sollevare la testa deviò quel tanto che bastava per non sfiorare suo padre.
“Stasera non ho fame” lo informò senza voltarsi, appena lo ebbe superato.
Poté immaginare la reazione di Tobias, ma non se ne curò, continuando a camminare. Quando aveva quasi raggiunto la sua stanza lo sentì rivolgersi rabbioso alla moglie, ma non udì nulla del litigio che ne nacque anche se la porta che si chiuse alle spalle non era sufficiente a escludere la furia che era esplosa di sotto.
Era stanco. Stanco.
Non si trascinò neppure sul letto, scivolò a terra e lì rimase rannicchiato, sporco, sotto il cappotto che lo soffocava nel suo calore, una mano aperta che strofinava meccanicamente il ruvido pavimento di assi scheggiate.
Non ricordò di essersi addormentato e quando tornò cosciente e capì dov’era, provò a muoversi, sentendo le ossa doloranti per la posizione scomoda che aveva tenuto sul pavimento duro. Aveva passato tutta la notte lì.
Si sedette appoggiandosi alla porta; nessun rumore si sentiva in casa.
Nonostante avesse dormito parecchie ore, si sentiva sfiancato e mentre scendeva le scale il più silenziosamente possibile, a passi lenti, tendendo le orecchie a qualunque suono potesse tradire la presenza di suo padre, nella sua mente ancora confusa dal sonno cominciarono a riordinarsi pensieri e ricordi del giorno prima.
Arrivò in cucina e si sedette su una sedia facendo penzolare un piede avanti e indietro a colpire piano la gamba del tavolo.
Dalla finestra entrava una luce fievole e lattiginosa, le imposte non erano state chiuse. Ma tanto erano rotte, la luce sarebbe entrata comunque.
Si guardò intorno, facendo scorrere lo sguardo sui mobili usurati e sulle pentole scure, sui canovacci appesi a un chiodo e sull’ordine muto di bicchieri e tazze di poco valore allineati vicino al lavello. Godette del silenzio di quelle povere cose e per qualche minuto posò il capo sulle braccia incrociate sul tavolo, ascoltando il proprio respiro.
Improvvisamente desiderò vedere quella bambina.
Alzò la testa e rimase qualche istante a fissare il riflesso della luce sulla parete di fronte. Poi si decise, scese dalla sedia e sentì dei movimenti di sopra. Non voleva incontrare suo padre e neanche sua madre.
Aveva deciso cosa fare, ma doveva tornare di sopra a prendere una cosa, prima. Si tolse le scarpe e salì velocemente le scale in punta di piedi, un po’ impedito dall’ampiezza del cappotto; quando ridiscese, teneva qualcosa stretto al petto. Tornò in cucina a prendere un pezzo di pane indurito e una mela, se li infilò in tasca, si rimise le scarpe ai piedi e uscì.
Sulla soglia di casa osservò il vicino trasportare un fagotto informe dentro una carriola. Un cane morto? Un gatto?
Prese a camminare, vagando per un po’ nel dedalo di stradine tutte uguali che però conosceva a memoria, dando qualche calcio ai sassi che incontrava, sentendo il quartiere animarsi a poco a poco.
Quando cominciò ad esserci troppa gente per i suoi gusti, si diresse verso il fiumiciattolo. Vide il vicino risalire l’argine, con la carriola vuota, e quando si incrociarono, l’uomo si grattò la canottiera unta con le dita tozze e gli fece un ghigno che mise a nudo una dentatura annerita e irregolare.
Severus guardò l’acqua sudicia e con una smorfia di disgusto prese con decisione a dirigersi nella direzione opposta.
Voleva andare al parco, voleva rivederla.
Più camminava più diventava un’urgenza, come se volesse a tutti i costi rivivere la sofferenza del giorno prima. Aumentò il passo e quando arrivò al parco era accaldato e ansimante, i capelli incollati alla nuca.
Si tenne in disparte, evitando le poche persone che quel giorno avevano sfidato il sole che ora era alto e infuocava l’aria che pareva avvolgere ogni cosa in un abbraccio soffocante.
Lei non c’era.
Severus era deluso e sollevato in pari misura. La disperazione del giorno prima bruciava ancora.
Si guardò intorno e individuò un posticino riparato e in ombra; prima però si diresse a una fontanella e, dopo aver posato con cautela a terra il libro che teneva in mano, bevve avidamente l’acqua fresca che zampillava, rinfrescandosi anche il viso e il collo. Scosse le mani scrollandosi via le goccioline e se le asciugò alla bell’e meglio sul cappotto, riprendendo poi il libro e dirigendosi sotto un albero.
Da lì non aveva una visione privilegiata del parco come da dietro il solito cespuglio, ma trovandosi su un terreno un po’ più elevato, poteva vedere abbastanza, senza troppi rischi di essere visto a sua volta grazie a una pianta di ortensie poco distante.
Se desiderava rivedere la chioma rossa della bambina, era parimenti deciso a non farsi vedere da lei.
Si immerse nella lettura del libro di pozioni, uno dei suoi preferiti, addentando la mela croccante e sbocconcellando il pane indurito; ogni tanto buttava un occhio alle altalene o alla giostrina, sempre con un misto di desiderio e apprensione.
Era concentrato nel rileggere -anche se la conosceva a memoria- la procedura per preparare la Pozione Polisucco (in grado di far prendere le sembianze di un’altra persona per un’ora -per un folle attimo immaginò di diventare Petunia!-) e non prestava attenzione ai movimenti davanti a lui, bambini, mamme, qualche anziano…
Sussultò violentemente quando sentì una voce esitante ma abbastanza forte chiedere: “Che cosa volevi dire ieri?”
Non l’aveva vista arrivare, non l’aveva sentita nemmeno avvicinarsi.
La bambina con i capelli rossi stava appena poco più sotto di lui, fissandolo nervosa, fissando proprio lui, ferma, non osando muovere un altro passo verso quel bambino magro e vestito in modo strano.
Ma non dava nemmeno l’impressione di voler andarsene, anche se si teneva abbastanza distante come per assicurasi la fuga e ogni tanto gettava qualche occhiata dietro di sé. Si irrigidì quando Severus saltò in piedi, spaventato quanto lei e tenendo una mano posata sul tronco, ma non si mosse.
Teneva gli occhi verdi puntati su di lui che, dal canto suo, stava ancora riprendendosi dalla sorpresa e tratteneva il fiato; il libro gli era scivolato dalle gambe e giaceva sull’erba con la copertina all’insù, il torsolo della mela era rotolato poco più in là.
Quand’era arrivata? Come l’aveva trovato?
Per lunghi istanti rimasero a fissarsi, studiandosi a distanza, intensamente, non osando compiere la mossa successiva.
Gli occhi neri di Piton erano spalancati per lo stupore e mentre qualcosa gioiva nel suo petto, la paura sembrava avergli tolto ogni capacità di reazione. Poterla vedere di nuovo e così da vicino era una sorpresa talmente insperata che dimenticò per un momento la delusione e la vergogna del giorno prima, perdendosi nell’osservazione del suo viso preoccupato e incuriosito insieme.
Respirò rumorosamente e scostando i capelli dalla guancia aprì la bocca, facendone uscire un suono inarticolato.
Forse rinfrancata dal suo imbarazzo, la bambina parve prendere coraggio e mosse un passo verso di lui; d’istinto Severus si appiattì di più contro il tronco.
“Perché mi hai detto quelle cose?”
“I… Io…” farfugliò Severus.
Poi qualcosa scattò dentro di lui, forse la consapevolezza che gli veniva offerta una seconda possibilità.
Ma fu quando realizzò che Lily era sola che prese il coraggio necessario per dire, con una punta di sfida: “Ho detto che sei una strega.”
Parlò velocemente, con voce chiara, per impedirsi di balbettare di nuovo.
Mentre pronunciava l’ultima parola si rese conto che a lei non era piaciuta, il giorno prima, e aggiunse in fretta: “Cioè, che tu hai poteri magici, che sei… sei una maga.” Ecco, questo termine forse era più gentile, per lei.
La guardò dritto negli occhi, ansioso, per capire se gli credeva oppure no, con il cuore che martellava all’impazzata.
Lily fece un altro passo verso di lui. Aveva gli occhi spalancati.
Con voce incerta disse: “...Una maga?”
“Sì!” Severus sembrava sollevato. Non era scappata!
“A… anche io lo sono.” Trattenne il fiato. “Un mago.”
Stava dicendo le stesse cose del giorno prima, ma questa volta la bambina non rifiutava le sue parole. Le soppesava e non c’era una Tunia al suo fianco a soffiare cattiverie malevole. Era indecisa.
La bambina fece vagare lo sguardo verso il parco, poi sollevò la testa a osservare la folta chioma dell’albero, immersa in chissà quali pensieri.
“Hai detto che anche tua mamma è una strega.” Aggrottò la fronte pronunciando quella parola.
“Sì…” Severus grattò con la punta delle dita la corteccia del tronco.
“Ma le streghe non… non sono cattive?” Lily questa volta aveva parlato a capo chino, muovendo nervosamente la punta del sandalo nel terreno.
“No!”
Severus lo disse d’istinto. I maghi non erano cattivi, o meglio, essere maghi era meglio che essere babbani, cioè… sì, c’erano dei maghi cattivi, Grindelwald per esempio, come gli aveva accennato sua madre una volta, ma essere mago o strega non implicava automaticamente l’essere malvagio. Sua madre non era cattiva. Non era neppure “buona”, ma… beh, a dire il vero non aveva mai pensato a sua madre in questi termini.
“Io credevo che le streghe fossero cattive”, sussurrò Lily.
“Tu non sei cattiva!” disse velocemente Piton, prima di potersi frenare.
La bambina lo guardò negli occhi. Severus sentì le ginocchia cedergli e strinse la mano contro il tronco dell’albero.
Un sorriso, un sorriso meraviglioso che cancellò tutto quello che era accaduto il giorno prima e che lo liberò dalla morsa pesante che lo stringeva, si disegnò sulla bocca di Lily.
“Come ti chiami?”
Aveva fatto un altro passo verso di lui, ma stavolta Piton non arretrò e staccò la mano dal tronco, strofinandola contro il cappotto per liberarsi di alcuni frammenti di corteccia.
“Severus”, rispose.
“Io mi chiamo Lily”, disse lei.
Ora erano uno di fronte all’altra.
“Lily” pensò lui.
Lo sapeva già, lo sapeva da tempo, ma fu bellissimo sentirglielo dire. Parlava proprio a lui.
Severus sentì le narici venir invase da un profumo lontano, un profumo ricolmo di tutte le cose belle del mondo. Si sentì leggero.
Ora la bambina era vicinissima e lo sguardo le cadde sul libro che giaceva nell’erba. Lesse la copertina e trattenne il fiato, scoccando un’occhiata a Severus.
“Posso?”, chiese.
Piton, litigando per un momento con la manica troppo lunga del cappotto, si chinò in fretta a raccogliere il libro, ne scrollò via un paio di formiche e glielo porse, trepidante.
Lily lo prese e si sedette per terra, guardando il viso dal colorito opaco di quel ragazzino che però aveva qualcosa che la spingeva a fidarsi delle sue parole, per quanto incredibili.
Ma in fondo… a lei capitavano cose incredibili, cose che… abbassò lo sguardo sul libro e lo sfogliò a caso.
Severus le sedette accanto, incapace di credere a quello che stava succedendo.
“È per questo” cominciò lei, esitante “…che alle volte faccio delle cose… strane? Tunia non… Tunia è mia sorella-” spiegò e Piton represse il disprezzo “…lei non riesce a fare quelle cose. E neanche mamma e papà.”
“Sì, tu puoi fare cose che loro non possono fare perché sono bab… p-perché non sono magici”, si corresse lui.
Ma Lily l’aveva sentito.
“Com’è che li hai chiamati?” domandò. “L’hai detto anche a mia sorella, ieri.”
Severus la guardò.
“Babbani”, rispose, cercando di usare un tono neutro.
La bambina non parve cogliere alcuna sfumatura in quella risposta, limitandosi a registrare semplicemente l’informazione.
“Dove hai comprato questo libro?” chiese curiosa.
“Oh, era di mia mamma, quando andava a Hogwarts…”
“Cos’è Hogwarts?”
Piton si sentì invadere dalla felicità.
Stava davvero spiegando a quella bambina del mondo di cui faceva parte senza saperlo, stava davvero seduto accanto a lei a parlarle di magia!
I suoi sogni più belli, ora li stava vivendo e lei lo ascoltava con interesse, non lo guardava storto per via del suo abbigliamento, del suo cognome o del quartiere da cui proveniva. Lo ascoltava rapita, gli occhi stretti per la concentrazione; non era come quella babbana di sua sorella, era venuta a cercarlo, a cercare proprio lui.
Piton voleva urlare dalla gioia.
“Hogwarts è la Scuola di Magia e Stregoneria dell’Inghilterra, tutti i bambini maghi ci vanno quando compiono undici anni.”
“Davvero? Ma io non ne ho mai sentito parlare!”
“Riceveremo tutti e due una lettera dalla scuola quando sarà il momento e quando il gufo ce la porterà…”
“Il gufo?” lo interruppe lei, sorpresa.
“Sì, la posta magica viene sempre portata dai gufi.”
Lily rise. Pareva trovare la cosa molto buffa.
Accarezzò con una mano le pagine ingiallite del libro di pozioni.
“Ti insegnano a fare queste pozioni a… Hogwarts?”
“Sicuro! E un sacco di altre cose, incantesimi, trasfigurazioni…”
“Che?”
“Trasfigurazioni, vuol dire che con la bacchetta puoi trasformare una cosa in un’altra, anche in un animale…”
“La bacchetta?!” Lily sembrava non credere alle proprie orecchie. “Vuoi dire che in quella scuola si usano le
bacchette magiche?”
“Certo, tutte le magie si fanno con la bacchetta”, annuì Severus.
Lily sembrava al settimo cielo. L’idea della bacchetta l’aveva esaltata, Severus riconobbe l’espressione gioiosa che precedeva quei saltelli che le vedeva sempre fare quando era su di giri.
Ma Lily si trattenne, forse un po’ intimorita di fronte a un bambino che ancora le era sconosciuto.
Severus comprese e iniziò a raccontarle tutto quello che sapeva sul mondo magico, sul Ministero, su Hogwarts, sull’Espresso che sarebbe partito da King’s Cross, sulle magie e gli incantesimi che conosceva, sulle materie che avrebbero studiato a scuola…
Lily guardò di nuovo il libro, affascinata.
Poi lo chiuse e lo restituì a Severus allungando il braccio. Lui osservò la sua bella mano bianca, morbida e delicata, così diversa dalla propria, magra, nervosa e con le vene scure che si vedevano attraverso la pelle sottile e giallastra.
Tutto in Lily sembrava suggerire dolcezza e calma.
Per qualche minuto la bambina rimase seduta con il mento posato sulle ginocchia, pensierosa. Sembrava desiderosa di mettere ordine in quella valanga di novità che Severus le aveva raccontato, in conflitto tra la ragione e una voce interiore che le diceva che era tutto vero e che quel ragazzino dai capelli lunghi non mentiva.
Piton capì il suo bisogno di tempo per assimilare il fatto di essere una strega.
Rimase a guardarla in silenzio e ogni momento che passava nella contemplazione dei suoi capelli rossi e dei suoi occhi assorti era un tesoro prezioso. Prese ad accarezzare sovrappensiero l’erba, provando una sensazione di beatitudine del tutto nuova, ma così piacevole che chiuse gli occhi e tirò un profondo respiro per gustarla meglio.
Era accaduto, stava accadendo! Sorrise.
Non era abituato a farlo…
Lily si voltò proprio in quel momento. Sorrise di rimando e raccolse una piccola pigna. La mise in equilibro sul palmo della mano, si alzò in piedi, tese il braccio e la pigna prese a girare come una trottola di legno, ma lei non la guardava. Guardava Severus.
Il suo sguardo era deciso, metà sfida, metà richiesta di spiegazioni. Lui la guardò da sotto in su.
Poi strappò dei fili d’erba e, alzatosi a sua volta, le si avvicinò. Il braccio di lei era ancora teso in avanti, con la pigna che girava scura sul palmo, senza accennare a fermarsi.
Severus sfiorò il polso di Lily con i fili d’erba e questi vi si avvolsero intorno intrecciandosi tra loro. Non le staccò gli occhi di dosso mentre la magia si compiva e vide alternarsi sul suo volto preoccupazione, stupore, meraviglia.
Lily spalancò la bocca e lasciò cadere a terra la pigna fissando il braccialetto d’erba e subito alzò lo sguardo sul viso del bambino davanti a lei, serio e solenne, che la guardava con gli occhi neri carichi di risposte e di una luce ardente.
Stavolta Lily non poté trattenersi e afferrate le mani di Severus lo trascinò in un girotondo in cui colori e forme si susseguirono veloci fino a fondersi nel suo grido di giubilo, nella sua risata cristallina.
Severus vide il mondo vorticargli intorno e strinse le mani in quelle di Lily, che in quel momento erano l’unico punto fermo dell’universo intero.
Si ancorò a quella stretta morbida e si perse in uno sguardo verde chiaro, gridando al cielo la sua liberazione.
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Edited by Camelia. - 18/7/2013, 16:47